Era fragile e fortissima Felicia. Una lama di cristallo conficcata nel cuore della mafia antica. “Mio figlio da Radio Aut parlava contro la mafia e contro Tano Badalamenti”. Cosi’ rispondeva Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato, il militante di Democrazia proletaria trucidato a Cinisi dalla mafia nel maggio del ’78, alla domanda del Pm Franca Imbergamo. Era il 25 ottobre 2000 e al magistrato che gli chiedeva ancora chi fosse quell’uomo, il Tano Badalamenti collegato in videoconferenza nell’aula bunker di Palermo, confermava lapidaria: “Un mafioso”. Dodici anni dopo la sua morte, Felicia viene ricordata a Cinisi con iniziative nell’ex casa di Badalamenti, confiscata al boss irriso da Peppino che lo aveva ribattezzato ‘Tano Seduto’. Durante il processo questa donna esile e coraggiosa non solo aveva ripetuto quello che diceva da anni, e cioe’ che il capomafia di Cinisi era il mandante dell’agguato mortale, ma aveva puntato il dito contro di lui, senza smettere di guardarlo negli occhi. Se ne e’ andata il 7 dicembre 2004, a 88 anni. Poco prima aveva pronunciato il suo anatema contro ‘Tano Seduto’ nel frattempo morto: “Badalamenti non dovra’ tornare a Cinisi neanche nella bara, perche’ la sua cappella e’ accanto alla tomba di mio figlio”.
L’11 aprile del 2002 sentiva di avere in parte pareggiato il suo conto mai chiuso con la mafia. “Non ho mai perdonato Tano Badalamenti, ne’ lo perdonero’ mai. Come si fa a perdonare l’uomo che ti ha ammazzato il figlio? Pero’ una cosa la posso dire: oggi per la prima volta posso affermare di credere nella giustizia italiana”. Era stato appena condannato all’ergastolo il vecchio boss di Cinisi, quale mandante dell’assassinio. Felicia lo aveva sempre gridato e aveva vissuto per proteggere la memoria del figlio insidiata da depistaggi sin dall’inizio dell’inchiesta. A Cinisi, paese alle porte di Palermo, era nata il 24 maggio del 1915 e qui aveva sempre vissuto. Nel ’47 aveva sposato Luigi Impastato, affiliato di Cosa nostra, da cui aveva avuto tre figli: Giovanni, nato nel ’49 e morto tre anni dopo; Giuseppe, nato il 5 gennaio del ’48 e assassinato dalla mafia il 9 maggio del 1978; e Giovanni, venuto alla luce il 26 giugno 1953. Una vita segnata dalla sofferenza, ma anche dalla determinazione nel nome di suo figlio Peppino, per il quale varcava la soglia di casa sua per partecipare a incontri, dibattiti e pronunciare giudizi anche taglienti contro chi metteva in dubbio l’impegno di suo figlio, o chi si ostinava a mascherare le ragioni della sua morte, a violarne il valore altissimo. Ma anche contro i tempi della giustizia. Ha atteso del resto 24 anni prima che da un’aula del tribunale venisse fuori la verita’ e fosse punito il colpevole. Il suo testamento lo aveva affidato al figlio Giovanni: “Dobbiamo sempre tenere alta la memoria di Peppino, anche quando io non ci saro’ piu’. Queste stanze dovranno restare sempre aperte”. In fondo, proprio per questo motivo collaboro’ con gli sceneggiatori dei “Cento Passi” di Marco Tullio Giordana, il film che ha fatto conoscere Peppino e il suo impegno a generazioni diverse. “Incontrava spesso comitive di giovani e scolaresche, era la sua missione e raccontava il vero volto della mafia”, ha ricordato il figlio Giovanni. La casa di Felicia Bartolotta e’ cosi’ diventata nei fatti un archivio di documenti e scritti di Peppino, una biblioteca in grado di raccontare cio’ che ha fatto, le sue battaglie, le denunce diffuse anche attraverso Radio Aut. Meta di visite da parte di gente comune, anche per rendere omaggio a Felicia, parte di una schiera luminosa e spesso tragica di donne irriducibili, per le quali verita’ e giustizia sono ragioni inflessibili.