CORRI, CONIGLIO TRUMP!
La vittoria di Donald Trump riflette pregi e difetti di una società, quella americana, che, pur di mantenere il suo sogno di sicurezza e di benessere, non guarda in faccia nessuno.
Nel leggere le vicende politiche americane gli osservatori europei incorrono spesso in un difetto di prospettiva: interpretano fatti, accadimenti e personaggi attraverso il filtro distorto dell’europecentrismo, come se gli Stati Uniti fossero l’Europa. Difettano di obiettività e – soprattutto – di umiltà, ritenendo che il ‘made in Europe’ abbia fatto breccia nella società americana non soltanto con lo style life, la moda, la cucina, l’arte e la mitologia legata all’immaginario del vecchio continente, ma anche con le logiche consociative, tiepide ed ambigue della politica.
Da questa prospettiva, ovviamente distorta, gran parte della stampa e degli opinionisti politici ha guardato alle elezioni americane facendo passare un messaggio che rispecchia, di fatto, non la mentalità della società americana nel suo complesso, bensì quella di una cerchia ristretta, anche se molto potente: l’elite politica ed intellettuale arroccata nelle torri d’avorio del mondo liberal e ‘bostoniano’.
L’America non ama i complotti, i travestimenti, l’ambiguità e il machiavellismo. L’America preferisce la sicurezza della spocchia volgare e opulenta di Trump ai sotterfugi oleosi della Clinton. E in nome di questa sicurezza – radicata nel ‘cuore di tenebra’ dell’America dei coloni, dei pionieri del west e della ‘frontiera’ – ha decretato la vittoria di Trump. Il voto americano è la radiografia di una società che, pur di non perdere il suo sogno di benessere, ha il coraggio di cambiare e di scegliere cinicamente, senza badare alla reputazione e all’accountability.
Hillary Clinton si è rivelata un candidato ‘europeo’.
Sostenuta dalla nomenclatura, dagli intellettuali, da politici potenti – insomma, da quella upper class che ha fallito la sua missione storica di difendere il forte americano da un lato dagli assalti della crisi economica, dagli sperperi, dagli scandali e dalle invasioni degli immigrati e dall’altro dalle minacce del terrorismo e dalle aggressioni del capitalismo cinese e del neoliberismo tedesco. Altera, irrimediabilmente compromessa, arrivista e ancipite, la Clinton incarna tutti i difetti (e nessun pregio) del politico europeo e, principalmente due: il trasformismo e la ‘permeabilità’.
Donald Trump si è mostrato subito per quello che era, senza maschere e senza travestimenti. Il ricco sfondato che riesce a farsi intendere ed apprezzare dagli operai dei suoi cantieri, modello da emulare per una middle class sordida e paurosa, cuore pulsante della società americana, che ha bisogno di eroi cattivi che garantiscano il sogno americano della sicurezza, del benessere e della continuità di quella ‘linea d’ombra’ (un tempo le praterie, le montagne, l’oceano; poi il protezionismo, la teocrazia quacchera; infine lo scudo spaziale e il ritorno alle guerre ‘fredde’ in Medioriente) che rappresenta il limite insuperabile della mentalità degli States: la paura dell’altro (i pellerossa, gli inglesi, i francesi, gli ‘indesiderabili’ della prima immigrazione, i cinesi, i portoricani, i messicani, etc.).
Questa middle class che ha eletto Trump quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti ha avuto i suoi due più grandi cantori in John Updike e Harmony Korine.
Il primo, scrittore straordinario e indiscusso morto nel 2009, nella tetralogia di Coniglio (Corri, Coniglio, 1959; Il ritorno di Coniglio, 1971; Sei ricco, Coniglio, 1981; Riposa, Coniglio, 1990) ha mirabilmente espresso il significato dell’esistenza medio-bassa in un’America ordinaria tra gli anni cinquanta e i novanta (che ancora non è scomparsa) attraverso il personaggio di Harry Coniglio Armstrong, un «americano esemplare», sudicio, sporcaccione, patriottico, gran lavoratore, ottimista, cinico, pieno di pregiudizi e pauroso che vive in una beatitudine bovina e in un successo materiale esibito tra paranoie e frustrazioni.
Il secondo, regista, sceneggiatore e produttore televisivo nato a Bolinas nel 1973, ritenuto un’importante figura del cinema indipendente e della scena musicale ‘indie’ statunitense degli ultimi anni, nel suo lungometraggio Gummo (1997) ambientato nella provincia americana, a Xenia, in Ohio, zona ai confini dell’immaginario, dove la televisione deforma per apprendere e dove gli spettatori guardano per insegnare l’ironica follia della realtà, con i suoi personaggi racconta lo sfacelo e l’ipocrisia tra il conformismo più resistente e la depravazione degli uomini gli uni contro gi altri. Gummo, l’uragano che si abbatte sulla provincia americana più nascosta, come la ‘peste’ di Manzoni e di Camus svela tutte le psicosi e le malattie di una società intorpidita dalla quotidianità e dal benessere, malata di paure e di sogni.
In nome di queste paure e di questi sogni elargiti sfrontatamente nella sua campagna elettorale insieme ai propri difetti e ai propri errori Trump ha vinto le elezioni. In effetti, ha vinto l’America, quella vera.
Quella che l’Europa continua a guardare con occhio miope e credulo.