Arriva con un’ora e mezza di ritardo il premier Matteo Renzi al teatro Vasquez di Siracusa. Carismatico, energico, e appassionato entra subito in empatia con il pubblico. Toglie prima la cravatta poi la giacca, come se fosse arrivato in un ambiente familiare, ma in realtà è circondato da circa 700 persone accorse per ascoltare le ragioni del SI del referendum costituzionale del 4 dicembre.
Per mezz’ora si parla di tutto tranne che del referendum. Renzi inizia il suo monologo sul palco snocciolando i dati diffusi nella stessa giornata di ieri dall’Istat, che vedono il Pil del Paese in leggera crescita nel III trimestre di quest’anno.
Dopo la questione prettamente economica, Renzi passa a parlare di disoccupazione e Jobs Act. Spiega che questa nuova riforma sul lavoro ha rilanciato il Nord Italia, strappando alla disoccupazione 700mila persone; un dato molto lontano da quello del Mezzogiorno che invece conta quasi la metà della popolazione giovanile non solo senza lavoro, ma senza speranza, senza la voglia di credere nel futuro, senza l’entusiasmo che dovrebbe essere una caratteristica tipica dei più giovani.
Si parla di fondi per la cultura, di stereotipi tutti squisitamente siciliani che denigrano l’immagine dell’Isola, si tocca anche l’argomento del commercio vinicolo molto indietro rispetto agli altri Paesi (Francia in particolar modo).
Ottimista e propositivo, con uno sguardo al futuro: “Siracusa compie 2750 anni, ma non possiamo vivere di passato e di archivi” – dice il premier.
“E’ necessario guardare cosa c’è di positivo nel nostro Paese per crescere, e non parlare sempre e solo di criticità, nonostante esse ci siano. – continua – L’Italia può essere una buona sfida per l’Europa di domani”.
E dopo un caloroso applauso nel ricordo di Enzo Maiorca, parte nella schermata alle spalle del premier il facsimile della scheda elettorale che i cittadini troveranno il 4 dicembre nelle urne elettorali. Dunque, la discussione “entra nel merito”: “Siamo l’unico Paese dove Camera e Senato fanno la stessa cosa – dichiara – In nessun altro Paese esiste la doppia fiducia, e quest’ultima è un grosso problema perchè crea quel fastidioso ping pong tra Istituzioni. La riforma serve a rendere il Paese più agile e tagliare gli sprechi della politica”.
Arriva l’attacco al nemico numero uno del Pd, il M5S: “Di Maio dice che si andrà verso la dittatura con questa riforma – dice Renzi – Ma loro sono quelli che hanno chiesto l’affitto del Vaticano. Una cosa impossibile. Io riconosco di aver fatto un grosso errore nell’aver personalizzato il referendum, ma fa parte del gioco di chi fa e può sbagliare”.
Il pubblico diventa partecipe e iniziano le domande dalle persone che lo stanno ascoltando, parte una “question time” , come lui stesso la definisce in maniera ironica. Una ragazza chiede le modalità di selezione dei senatori.
“La Camera è scelta tra i rappresentanti delle Regioni e dai sindaci. – risponde Renzi – Il Senato sarà composto da 100 persone. 95 di queste saranno scelte tra Regioni e sindaci direttamente dai cittadini. La scelta di voler dare voce ai sindaci rientra nel desiderio che ogni primo cittadino possa portare criticità legate al proprio territorio. Questo vuol dire che i primi cittadini non avranno un doppio stipendio, ma solo quello dei sindaci”.
Dopo una serie di domande, tra selfie e scroscianti applausi, si conclude l’incontro con il primo ministro. Visibilmente soddisfatti tutti i politici renziani siracusani, pesante assenza invece dell’area riformista che in massa non si è presentata.
Fuori un piccolo gruppo di contestatori gridano “Renzi a Casa”, in strada più Forze dell’Ordine che persone.
Ma solo dopo aver osservato prima l’incontro con Bersani, e poi quello con Renzi, la sensazione è quella non solo di avere un Partito Democratico spaccato, ma di partecipare a iniziative di due partiti già divisi, separati per ideologia, modi di affrontare la comunicazione e la vita politica. Una spaccatura netta, senza sfumature. Ciascuna delle parti sostiene di voler riunire il Pd, ma la sensazione è che ci sia in corso una battaglia per distruggere l’avversario, che – sorprendentemente – è proprio il compagno di partito. Non un compagno, ma un tesserato.